lunedì 20 luglio 2009

Gli americani e la lingua cinese

Il presidente di Taiwan Ma Yingjiu ha proposto recentemente il sistema di insegnamento della lingua cinese applicando “conoscere il tradizionale e scrivere il semplificato”. Questa proposta ha suscitato non poche discussioni, soprattutto nell’ambito degli Overseas Chinese.

Secondo un articolo pubblicato sul World Journal oggi, il giornalista Fan Shiyu scrive che negli U.S.A. l’adozione dei due sistemi di scrittura ormai è una realtà praticata da anni.

La voglia degli americani di imparare la lingua cinese è sempre più fervente. La statistica fatta dall’Associazione di Lingua Moderna (Modern Language Association) indica che tra gli anni 2002-2006, i numeri degli iscritti ai corsi di cinese nelle università sono aumentati del 51%, arrivando a 51.600 allievi. Nel 2007 il primo esame di cinese dell’Advance Placement (equivalente all’esame di stato di maturità) ha avuto 3350 studenti, superando quelli per le altre lingue come l’italiano, il francese e il giapponese. Le scuole elementari e secondarie che hanno attivato il corso di lingua cinese nell’anno passato sono circa 779, raddoppiando il numero in confronto all’anno 2005.

I personaggi famosi considerano la lingua cinese una lingua importante, la CIE dell’eBay Meg Whitman ha mandato il figlio a fare la scuola secondaria a Beijing ed oggi lui parla un ottimo cinese. Jim Rogers della Fondazione Gruppo Quantum ha chiamato una tata da Beijing per accudire la sua figliola, e due anni fa si è trasferito a Singapore con tutta la famiglia perché ritiene che il mondo asiatico è il maggior mercato del mondo.

Politicamente e strategicamente, lo stato americano considera la conoscenza di lingua straniera un atto collegato direttamente alla sicurezza nazionale, finanziamenti sostanziosi sono stati erogati ai vari dipartimenti, come il Dipartimento dell’Educazione, il Dipartimento dello Stato, il Dipartimento della Difesa, e la Cia per istituire corsi di lingue estere. La lingua cinese è la più richiesta.

Il professore Wang Ban insegna alla Nazioni Unite e alla China Institute, ha 24 anni d’esperienza d’insegnamento della lingua cinese, i suoi alunni sono sparsi nel mondo e fanno parte di tutte le categorie di professione, non mancano gli ambasciatori e funzionari per gli affari esteri. Il professor Wang sostiene che è assolutamente vero, che imparare la lingua cinese è sempre più di moda, perché i diplomatici hanno capito che per capire la cultura e per comunicare efficacemente con le persone del luogo, prima di tutto bisogna imparare bene la loro lingua.

Dopo l’evento delle olimpiadi a Pechino dell’anno scorso, e i recenti avvicinamenti tra i due paesi, gli americani dimostrano sempre più interesse verso l’acquisizione della conoscenza della lingua cinese.

Il professore Daniel Yang, responsabile dei corsi serali, dichiara che nell’Istituto Cina attualmente ci sono 200 studenti che frequentano i 12 livelli di classe, il 75% di essi non è d’origine asiatica. La professoressa Wu Hong insegna da 20 anni, e nota che venti anni fa l’età media degli studenti era di 40 anni, e lo scopo dello studio della lingua cinese allora era soprattutto per curiosità, o per passione personale. Oggi metà degli studenti gira sui 20-30 anni, la maggior parte è professionista, con l’obiettivo di un miglioramento occupazionale o commerciale. Un’altra spinta verso la decisione di imparare questa lingua viene dalle necessità in famiglia. Sono 3 le tipologie di questa composizione: gli adulti che imparano questa lingua con l’intenzione di adottare figli cinesi e si preparano sulla base di comunicazione con i bambini; le persone sposate con cinesi che non soltanto imparano la lingua per capire l’altra metà, ma soprattutto per l’educazione dei futuri eredi facendoli mantenere la cultura millenaria; poi il 25% degli studenti discendenti da genitori o pro-genitori di origine cinese.

Il professore Liu Shiqi, docente dei corsi di cinese della facoltà di Ricerca di Asia Orientale dell’Università di New York, fa notare che negli ultimi anni quasi un terzo degli iscritti ai corsi di cinese non provengono dalle famiglie di origine asiatica. L’anno venturo gli iscritti sono 300, e nonostante abbiano aumentato i corsi di 70-80 persone per classe, ci sono sempre 30-40 persone che restano in lista d’attesa. Secondo i regolamenti dell’Università di New York, i corsi propedeutici sono costituiti in 2 anni, generalmente nel 3° anno i numeri degli studenti diminuiscono sensibilmente. Ma da alcuni anni, il 3° anno di studio ha avuto costantemente le 2 classi. Con l’inizio del nuovo anno scolastico a settembre, le classi del 3° anno diventeranno 3. I docenti sono aumentati da 5 a 9. La stessa situazione si verifica anche nell’Università Columbia di New York.

Gli studenti che frequentano i corsi di cinese ormai non sono soltanto quelli della facoltà di economica, si aggiungono quelli delle facoltà di letteratura, scienze sociali, e arte.

Il professor Liu ha inoltre puntualizzato i 2 punti cruciali dello studio della lingua cinese: la pronuncia e la scrittura. Il primo punto è superato avendo il sistema standardizzato di Pinyin. Il secondo punto riguardante la scrittura in tradizionale o in semplificato, per la situazione negli States, fa l’esempio con gli esami di AP che contengono tutte e due le scritture, e quelli della SAT (Scolastic Assessment Test – per ammissione all’università) che contengono addirittura la traslitterazione in Pinyin con i toni. Per l’insegnamento nell’Università di New York, principalmente si impara la scrittura semplificata con l’indicazione della scrittura tradizionale per i primi due anni, lo studente sceglie autonomamente quella che preferisce. Il terzo anno si impara con la scrittura tradizionale. Un fatto dovuto al semplice motivo che la sempre più frequente reperibilità dei docenti provenienti dalla Cina continentale limita l’insegnamento della scrittura in tradizionale.

Naturalmente il Prof. Liu concorda che gli studenti non amano fare fatica e preferiscono imparare la scrittura semplificata, ma suggerisce sempre di non limitare la conoscenza poiché la gran parte della letteratura cinese è scritta in tradizionale. “Poi,” dice il Prof. Liu: “non bisogna spaventarsi della scrittura tradizionale dato che la semplificazione della scrittura segue una logica, e chi impara bene quella tradizionale non ha difficoltà a riconoscere la scrittura semplificata”.

Per rispondere a coloro che sostengono la non importanza per imparare una o l’altra scrittura in quanto il computer dispone e facilita entrambi le immissioni, Liu non è d’accordo e insiste che i primi due anni di studio della lingua necessariamente deve essere fatto esercitando la scrittura manuale.

I principianti generalmente amano la scrittura semplificata. Un esempio di controcorrente invece viene dalla pittrice americana di nome Riana. Lei ha studiato alcuni anni la lingua cinese e alla fine ha deciso di andare a Taiwan per imparare bene la scrittura tradizionale. Secondo lei la scrittura tradizionale è più pittorica e di fatto la utilizza nella sua pittura. Ha scelto anche un nome tipicamente cinese Wang Leilu 「王雷露」,sostituendo quello che ha avuto dagli insegnanti in America quale Hua Meilian「華美蓮」.

Nell’Istituto Cina dove l’insegnamento della lingua cinese ha avuto inizio nel 1944, dal 1985 il Professor Wang Ban, d’origine Taiwanese, ha introdotto il materiale didattico elaborato dall’Università di Lingua di Pechino con la scrittura semplificata. La responsabile della didattica dell’Istituto enfatizza che l’insegnamento comunque si basa sulla scrittura tradizionale. Le spiegazioni vengono fatte partendo dal tradizionale per arrivare al semplificato, e ogni carattere viene esercitato in scrittura per 20 volte. Il Prof. Wang vanta uno studente di fama mondiale quale Dott. David Ho, inventore del Cocktail di farmaci per la cura di Aids. Dai 10 livelli di corsi di cinese tenuti alla Nazioni Unite, il Prof. Wang tiene i primi 3 livelli, perché lui ama preparare la buona base e vuole suscitare l’interesse fondamentale per una lingua tanto difficile. Si considera un insegnante esigente perché riprende sempre i suoi alunni quando non consegnano i compiti o non imparano le lezioni, essi sono considerati tutti “bambini” da lui, che siano ambasciatori, ministri o capi di stato.

Gli adulti che si affacciano allo studio iniziale delle lingua cinese hanno la curiosità dal bambino, ma non la sua memoria. I docenti di lingua cinese concordano che l’insegnamento verso i bambini si basa sulla ripetizione e memorizzazione, mentre l’insegnamento verso gli adulti si enfatizza in analisi logica. Per i nativi di origine cinese invece, dice Prof. Wang, è come aprire un negozio di manutenzione, si eseguono tutte le riparazioni possibili, cioè le correzioni continue della lingua cinese imparata dagli studenti nel loro dialetto parlato in famiglia.

L’atleta pluripremiato Michael Phelps ha studiato la lingua cinese prima di approdare a Beijing per le olimpiadi, ha commentato che “è più facile prendere 8 ori che imparare la lingua cinese”. Secondo una statistica fatta dall’ente pubblico degli States, le lingue straniere super difficili per madrelingua anglosassone sono in ordine: il cinese, l’arabo, il giapponese e il coreano. Per gli americani, conoscere ad un buon livello una lingua straniera come l’italiano, il tedesco, lo spagnolo e il francese, si impiegano 720 ore circa, mentre per la lingua cinese si richiedono 1800 ore.

L’esempio di Damian, che conosce bene la lingua francese e quella inglese, dimostra che la parte più difficile è la scrittura. Dopo due livelli di studio all’Istituto Cina, ha realizzato che conosce appena circa 100 caratteri, ha deciso di imparare principalmente conversazione in lingua. L’altro punto saliente per imparare questa lingua è quello di ricordare e riconoscere le parole composte, di 2 o 3 morfemi che siano.

Dal punto di vista dei docenti, le difficoltà per imparare questa lingua è data anche dalla lunghezza del tempo che viene impiegata, gli studenti molto spesso si spaventano soltanto rendendosi conto che per imparare un carattere, o una parola, bisogna imparare il Pinyin, ricordare la sua associazione al carattere specifico, e il suo tono. Soprattutto i 4 toni che richiedono una sensibilità spiccata verso la loro pronuncia, e molte persone possono essere definite “insensibili al tono”.

In sintesi, i vari docenti intervistati puntualizzando le loro esperienze di insegnamento, dicono:
1. Per imparare la lingua cinese, bisogna prima di tutto imparare “il senso della lingua”, soprattutto nei primi due anni;
2. La cultura cinese è la base della sua lingua, introducendo la cultura si facilita l’acquisizione della conoscenza della lingua
3. Sia per la grammatica che la scrittura dei caratteri, è sempre opportuno spiegare raccontando la sua origine.
4. Puntare sulla musicalità delle parole, per esempio il suono di rialzo della parola 「起飛(qǐfēi)」per indicare “prendere il volo”, e l’abbassamento della parola「降落(jiàngluò)」per indicare l’atterraggio,onde stimolare l’immaginazione degli studenti nel conoscere e ricordare le parole.

L’ultima parola al Prof. Wang Ban, che paragona la lingua a un capolavoro artistico: le parole cinesi sono come una collana di perle, ogni parola-ogni perla è bella stando a se, come è bella quando viene infilata in una collana; mentre le lingue occidentali sono come un ricamo, gli alfabeti sono il filo, è bello il ricamo quando è tutto composto. Inoltre, dice che il suono delle parole cinesi è la poesia, la sua scrittura è la pittura.

La sottoscritta, aggiunge che il suono delle parole cinesi è la musica, la sua scrittura è la pittura. Così la lingua cinese incarna l’arte.

mercoledì 8 aprile 2009

Scuola Italiana

Oggi ho letto questo articolo sul Corriere della Sera che ritengo interessantissimo, ed avrei anche dei commenti personali da fare. Riporto qui sotto l’articolo (in grassetto):

Corriere della Sera (by Roger Abravanel, Meritocrazia.corriere.it) – 8 aprile 2009

L’emergenza educativa della scuola italiana è sotto gli occhi di tutti, ma pochi sembrano preoccuparsene. La scuola italiana è spaventosamente iniqua come testimoniano i test PISA che evidenziano un gap spaventoso tra Sud e Nord. Le ricerche dell’OCSE sulle “competenze della vita” che si dovrebbero imparare a scuola (per esempio la capacità di comprendere e interpretare ciò che si legge sui giornali) dicono che solo il 20% degli italiani è al livello 3 (quello considerato accettabile in una società moderna) contro percentuali triple degli altri Paesi sviluppati. Senza tali competenze un Paese non progredisce e non nasce la coscienza civile.

Sono pienamente d’accordo con l’autore soprattutto riguardo al progresso di un paese e la nascita della coscienza civile. Quante volte lamentiamo i comportamenti o le abitudini delle persone “incivili” trovando poi la causa sta proprio nell’ignoranza di fondo.

Il dibattito degli ultimi mesi sulla scuola si è concentrato interamente sulle risorse e non su come migliorare il livello della qualità dell’insegnamento. Eppure cosa fare è abbastanza chiaro: basta osservare ciò che ha fatto l’Inghilterra negli ultimi 10 anni. Le leve da utilizzare sono quattro.
La prima è la possibilità di avere esami nazionali e test standard che possono misurare obbiettivamente gli apprendimenti degli studenti in modo da rendere trasparente e responsabile la qualità dell’insegnamento che è l’unica vera variabile che conta, come dimostrano alcuni studi quali “how the best schooling systems come on top” (“come si spiega la eccellenza dei migliori sistemi educativi”) della Mckinsey. Ebbene noi siamo uno dei pochi Paesi sviluppati dove tali esami e test standard non esistono e la valutazione degli apprendimenti è lasciata unicamente alle scuole con criteri spaventosamente soggettivi (i PISA del Sud sono a livello dell’Uruguay e della Tailandia ma i voti degli insegnanti sono buoni, a livello di quelli del Nord). L’Invalsi, la struttura che dovrebbe concepire questi test sta faticosamente tentando di uscire dal commissariamento.


Anche quest’anno Italia è un paese partecipante all’edizione PISA, chissà dove si piazzeranno i nostri ragazzi. Dall’ultima edizione del 2006, non sono riuscita a vedere i risultati dell’Italia.

Personalmente vedo che standardizzare gli esami o test nazionali sia un lavoro troppo faticoso …, siamo italiani!

Secondo, è essenziale la capacità di formare la maggioranza degli insegnanti sulla didattica, fornendo loro un feedback sulle loro esigenze di miglioramento e l’accesso “sul campo” ai colleghi migliori. Da noi questa possibilità praticamente non esiste anche perché molti insegnanti non accettano aiuti sulla qualità della loro didattica da altri insegnanti migliori di loro. L’organo preposto a tale fine, l’Anasa sta anche esso tentando di uscire anche esso dal commissariamento e di ristrutturarsi.

Ah, non solo l’organo preposto citato nell’articolo deve ristrutturarsi, ma è tutto un altro organo che ha bisogno di ristrutturazione: quello che contiene le materie grigie.

Terzo è necessaria una classe eccellente di ispettori che, in maniera indipendente, visitino le scuole periodicamente per rendersi conto della qualità e definiscano con i presidi i programmi di miglioramento e li controllino. In Inghilterra ci sono 1500 “ispettori di Sua Maestà” e in Francia 3000 ispettori del Ministero. Da noi sono solo 300 e non possono più ispezionare ma intervenire solo nei casi più gravi soprattutto quelli di tipo disciplinare.

Ecco che mi rendo conto degli atteggiamenti...

Quarto è essenzialmente rifondare la selezione degli insegnanti: in Finlandia e a Singapore dove ci sono le migliori scuole del mondo, gli insegnanti vengono scelti tra il 5% dei migliori laureati. Da noi passeranno 10 anni tra l’ultimo e il prossimo concorso che vedrà comunque una massiccia assunzione di “precari” e la creazione di uno spaventoso gap generazionale tra insegnanti.
Naturalmente questo è un punto dolente del sistema, sarà mai possibile cambiare un sistema utilizzato da non so quanto tempo?


In conseguenza di tutto ciò, il sano principio della “autonomia della scuola” è una chimera: un preside non ha alcun potere nei confronti degli insegnanti e nessun responsabilità perché non si può valutare obiettivamente la qualità dell’insegnamento nella sua scuola. Comunque, i finanziamenti pubblici arrivano indipendentemente dai risultati.

Dico anch’io che “autonomia della scuola” è una chimera, dalla quale nascono dei mostri come in un discorso che ho sentito: “… abbiamo imparato un metodo didattico efficacissimo, è quello che viene usato nella B. Council… dove i corsi d’inglese vengono tenuti dalle ragazze madrelingua, che non hanno un livello di studio molto alto, ma ciò che fa funzionare è la ferrea linea didattica che adottano. Quindi basta avere una linea guida ben strutturata, i giovani insegnanti seguono le indicazioni date, e così non c’è più bisogno di pagare a caro prezzo gli insegnanti di alto livello... che quelli avranno le loro soddisfazioni altrove dove prendono altri incarichi e fanno altre cose …”.

Recuperare terreno è possibile ma le riforme della istruzione pubblica sono le più difficili. Le opposizioni sono enormi e di solito provengono in gran parte dai sindacati degli insegnanti che resistono a qualunque tentativo di misurazione obbiettiva della qualità dell’insegnamento e di inserimento di meccanismi di premi e punizioni.

Eppure alcune riforme hanno avuto successo, come per esempio quella di Tony Blair che aveva come obiettivi del proprio governo “education, education, education”. Blair è riuscito a vincere le enormi resistenze perché aveva l’appoggio dei cittadini inglesi, soprattutto dei genitori degli studenti, stanchi di vedere il declino della qualità del proprio sistema educativo.

In Europa la sensibilità dei cittadini sulla qualità della scuola sta crescendo: quando gli ultimi risultati PISA sono stati pubblicati sulla stampa, le mamme tedesche hanno iniziato a telefonare in Finlandia per capire le cause del gap con la Germania e il sito in francese dell’OCSE ha oscurato i mediocri risultati della Francia per timore di tensioni sociali. Da noi invece questa coscienza civile è spaventosamente assente. Manca all’appello proprio la maggioranza degli italiani, quelli delle fasce sociali meno privilegiate che perdono le opportunità che la scuola offre ai loro figli di avere un futuro migliore del loro e la mettono all’ultimo posto tra le priorità. La preoccupazione principale è invece che i figli possano stare a scuola anche il pomeriggio e abbiamo buoni voti, anche se questi ultimi non riflettono le reali capacità degli studenti.
Quando l’attuale governo ha affrontato il problema degli sprechi della scuola, milioni di genitori hanno protestato contro il rischio di vedere sottrarre risorse con un danno alla “qualità”. Ma, purtroppo, questa qualità, come abbiamo visto, oggi non è misurabile obbiettivamente data l’assenza di sistemi moderni di valutazione degli apprendimenti degli studenti. Nei Paesi come l’Inghilterra, che hanno affrontato seriamente le riforme dell’insegnamento, si è invece passati da una mentalità che dice “qui non funziona nulla, ma dateci le risorse e se abbiamo fortuna miglioreremo” a “le risorse arriveranno se ce la meritiamo, dimostrando che possiamo migliorare con misure obbiettive e trasparenti”. Pochi peraltro sanno che non riusciamo a spendere tre miliardi di euro della UE a nostra disposizione per migliorare l’insegnamento soprattutto al Sud.
Se gli italiani prenderanno coscienza dell’importanza di una scuola equa e di qualità, troveranno un potente alleato: una buona parte degli 800.000 insegnanti italiani che sono frustrati dalla mancanza di merito e dal declino della propria professione. Allora forse la politica si muoverà con il coraggio e l’impegno necessario.


Sull’ultimo punto posso esser d’accordo in parte, quante volte le belle parole come “le risorse arriveranno se ce la meritiamo …” suonano logicamente incoraggianti, ma esiste il muro fatto da certi insegnanti che hanno paura di perdere il posto di lavoro se si applica la meritocrazia, e in più alcune persone decisionali incompetenti che vanno a ingrossare lo spessore del muro da battere….

lunedì 26 gennaio 2009